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Due schede cinematografiche: «Professione Reporter» di Antonioni, «Orizzonti di gloria» di Kubrick (1977)

«Cinema Nuovo», n. 245, Roma, gennaio-febbraio 1977, pp. 10-12; poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Due schede cinematografiche

Professione Reporter di Antonioni

L’autodistruzione sostanziale (pur nell’apparenza della ricerca di una diversa vita) in cui culmina l’«avventura» di Locke mi sembra ben interessante e attuale e vivamente sollecitante anzitutto proprio in se stessa, in quanto il viaggio verso la rinuncia dell’identità precedente e verso la morte è condotto con maturi moduli e ragioni interne della poetica di Antonioni nei suoi esiti ultimi, in una maniera di poesia conoscitiva e problematica propria di questo grande regista. Né poi, a ben guardare, e pur senza isolatamente ipervalutarli, mancano nel viaggio di Locke acuti segnali politici e sociali propri del nostro tempo, espressivamente risolti, e agganci a problemi su cui il film fa «riflettere» lo spettatore: i problemi propri del reporter e del suo «documentare» che la società capitalistica vuole neutro e a cui Locke si ribella, i problemi piú fondi del rapporto fra solitudine e diversi raccordi dell’individuo con la società, voluti, non voluti, subiti, desiderati, i problemi dei rivoluzionari in cerca di armi, i problemi dell’Africa fra rivoluzione e tirannide, e i problemi di una Spagna desolata.

Ma il fondo del mio interesse di pessimista rivoluzionario per questo film, e in genere per la produzione di Antonioni – tanto intellettuale quanto artisticamente sapiente fino a un’esasperata specificità – è proprio la maniera lucida e, ripeto, valida artisticamente, con cui questo intellettuale-regista fa vedere problemi propri dell’uomo attuale in una negatività risoluta, premessa, a mio avviso, di ogni vera possibilità di alternativa alla società-realtà in cui orrendamente viviamo. Alla fine punterei decisamente sul «racconto del cieco» o meglio monologo (dato il rapporto cosí distaccato che Locke ha con la ragazza incontrata nel labirinto del palazzo di Gaudí, raffigurato nel suo gelido furore fantastico-onirico), punta estrema delle dichiarazioni reticenti del reporter nel suo viaggio-abbandono a un’altra vita, in realtà diversificata da quella abbandonata proprio dalla coscienza di questa parabola-apologo. Locke stesso è il cieco che recupera la vista e perciò si «suicida», e il suo è l’«occhio» aperto che vede la società e la vita, in certo senso, l’«occhio» stesso dell’intellettuale-regista che a sua volta fa recuperare la vista allo spettatore.

E il suicidio del cieco, ora veggente, come il «suicidio» di Locke entrato in una vicenda che non può non condurlo alla morte, sono la sigla forte della insostenibilità dell’esistenza in questa società, in cui l’individuo che «vede» è costretto a desiderare di perdere la sua identità e di rifiutare la vita. Allo spettatore sta poi ricavare l’alternativa (essa stessa problematica e non trionfalistica e sicura): o la morte o l’abbietta rassegnazione. Ma la presa di coscienza, la vista dell’occhio aperto (prima chiuso nelle illusioni quotidiane e nella accettazione di falsi valori e del vitalismo qualunquistico) è momento essenziale anche e soprattutto per chi, solo a questo costo, può profilare la sua protesta e la sua alternativa rivoluzionaria priva essa stessa di ogni «ottimismo». A questo momento essenziale mi pare che porti forte contributo (e con la forza moltiplicatrice e conoscitiva dell’arte) anche l’«occhio» di Antonioni e del suo ultimo film.

Orizzonti di gloria di Kubrick

In me è nettissimo il ricordo (già prova della sua consistenza e della sua forza espressiva) di Orizzonti di gloria (o meglio Paths of Glory, sentieri di gloria, secondo il titolo originale), visto da me nel ’58, in un periodo in cui un uomo di sinistra poteva anche ipervalutare, per la loro simile tematica, film come Ultima spiaggia di Kramer (ma forte resta di questo il finale, prima con i cittadini in disciplinata fila a ricevere la pillola mortale e con gli ingenui canti dell’Esercito della salvezza, poi con la città, deserta e mossa solo dalle foglie e dalle carte sparse dal vento) o Non uccidere di Autant-Lara, tanto inferiori per spessore ideologico e artistico. Ecco: il film di Kubrick resiste proprio perché la sua ideologia era piú profonda, e risolta – al di là di qualche eccesso oratorio dovuto alla stessa esacerbata passione civile del giovane regista – con energia coerente a livello espressivo.

Ne sono tuttora testimonianza evidente l’immagine ossessiva del «formicaio», visto dalla trincea francese, i lividi colloqui fra i due generali tra stucchi e mobili antichi in un vasto salone gelido e aristocratico, o il conclusivo canto, innocente e dolente, familiare e popolare della spaurita ragazzina tedesca (esibita con lazzi volgari dal verboso organizzatore della rappresentazione «offerta» ai soldati), che di per se stesso e nella profonda umanizzazione che provoca nei soldati «proletari», divenuti strumenti di massacro di se stessi e dei loro avversari «compagni», è giudizio fermo, e risolto nel visivo e nel sonoro, sull’infamia della guerra in generale e di quell’orribile guerra in particolare.

Tale attacco antimilitarista e antibellicista non a caso ritorna, pur nel successivo svolgimento della politica del regista, nel caos-geometria delle battaglie settecentesche di Barry Lyndon (con un’accusa alla guerra che «macina» i soldati che si battono per gli interessi dei propri oppressori), ingiustamente limitato, con l’accusa di calligrafismo, da certi settori della sinistra che, mentre giustificano i prodotti piú scadenti e basso-decadentistici purché ammantati di falso trionfalismo «positivo», finiscono poi per non capire prodotti di ben diverso valore e di ben diversa profondità ideologica e problematica.